Perchè l’abbandono di una fede è punito con la morte

0 Comments

di Vincenzo Cotroneo*

Perché chi abbandona una fede dovrebbe essere condannato al maggiore supplizio?

Una situazione limite, che l’Occidente globalmente inteso fatica a capire e digerire, nella sua modernità che copre tra l’altro storie di passati discutibili, nemmeno troppo lontani, periodi bui durante i quali la giustizia terrena e religiosa era amministrata dai governanti (dell’una e dell’altra sponda giudicante) con una eccessiva discrezione e misurando bene la convenienza di una sentenza a favore o sfavore…

In ogni caso, la pressoché totalità della comunità occidentale che si scopre aderente alle radici cristiane della propria cultura (intendendo per cristiane quelle radici figlie del diritto romano che autorizzò e legalizzò il libero culto con l’editto della tolleranza del 313 (…ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset) trova che sia privo di ogni fondamento e di ogni legittimità giuridica, filosofica, etica e politica, condannare a morte chiunque decida di abbandonare un cammino di fede per dedicare la propria attenzione ad altra religione, o al nulla.

Abbiamo imparato a scindere ciò che è di Cesare, da ciò che è di Dio, e questo è stato un passo enorme per l’intero agglomerato umano, che trova cosi ampia libertà di gestione nella elaborazione di norme, regole, consuetudini che possano cosi organizzare e scandire i tempi della vita quotidiana, indicando principi comuni sui quali la giustizia possa operare con oggettività e con criteri di adattamento alle circostanze, valutando elementi, contestualizzando le situazioni, misurando gesti e scelte proprie dell’uomo.

Per un Dio che nei libri antichi era disegnato come un legislatore piuttosto irascibile e portato a soluzioni estreme o punizioni esemplari, è stato un notevole salto di qualità. Insomma la comunità si è autodeterminata nel descrivere le proprie norme, nel rispetto di principi universali e universalmente accettabili perché laici, descrivendo una zona, quella morale, come zona privata e destinata all’esercizio della fede, intimo momento di confronto e conforto dell’uomo.
Quest’area di fede morale  può indicare una modalità di vivere le leggi, ma non può obbligare il credente alla negazione dell’obbedienza e rispetto del tessuto che regola l’equilibrio tra tutti coloro che vivono e scambiano relazioni su un territorio definito.

E cosi è. O meglio, non proprio cosi.

Gira sui social un vecchio articolo dell’ottimo Fausto Biloslavo sui grandi numeri relativi alla presa di posizione favorevole della comunità islamica circa la condanna a morte per gli apostati, ovvero per i fedeli musulmani che decidono di lasciare la fede per abbracciarne una nuova o per andare incontro al laicismo.
Si nota, ogni volta che  questo articolo (del 2013) viene pubblicato, una piccola ma movimentata ondata di sdegno e scandalo.
Certo, i numeri erano (e sono) quelli…e poco ci sta da commentare filosoficamente sui numeri. Le percentuali di chi considera l’apostata meritevole di morte legittimamente comminata da un tribunale sono alte e si attestano tra il 40 e il 70 per cento dei Paesi della mezzaluna. E le percentuali salgono ovunque in questi Paesi, quasi in modo bulgaro, laddove si chieda di valutare l’adesione al testo legislativo coranico e della sharia in luogo di testi normativi e costituzioni di giuspositiva provenienza.
Quindi, l’abbandono non è solo del precetto religioso, ma anche del contestuale dettato giuridico.  E’ una contraddizione di termini, una mancata recezione culturale, è qualcosa che difetta da ambo le parti (da una parte una spiegazione, dall’altra una comprensione) considerando due comunità culturalmente opposte.

Proviamo a capire.

L’Islam non è solo una fede e basta. Basterebbe già questo a chiudere il cerchio delle questioni e dei dubbi.
Il tessuto che lega il popolo dei fedeli musulmani e che lo rende impermeabile a qualunque “esotismo” sia che ci si trovi a Mecca piuttosto che a Manhattan è l’universalità dell’applicazione della Legge Divina, ovunque, comunque, ed in ogni tempo.

Quando si parla di Corano e Sharia, non si discute di religione o della parola del Profeta.

Gli imam della comunità, Corano in mano, la amministrano, la guidano, ne scandiscono i tempi e le modalità di vita quotidiane, e vigilano sulla corretta aderenza ai principi coranici, proprio per evitare che vi possa essere una commistione (o inquinamento) con altre forme di regole o norme che non essendo islamiche (e non provenendo da Dio in persona come nel caso del Corano) non possono essere imposte o seguite dalla comunità, pena l’essere sempre sul filo dell’accusa di apostasia.
Lo sforzo di adattabilità di una comunità islamica in un paese straniero occidentale è vissuto come un jihad (sforzo, impegno) personale di ogni fedele nel mantenersi il piu possibile puro e fedele alle norme islamiche limitando al minimo indispensabile l’osservanza e il rispetto di percorsi normativi che sono in contrasto con quello musulmano.
Nulla di scandaloso. Due sistemi giuridico normativi che si basano su sistemi e metri di valutazione diversi non possono coesistere sullo stesso territorio. Per cui un musulmano se all’esterno della propria abitazione cercherà di adattarsi a forme di diritto occidentale positivo (che non racchiude la sfera morale..), offrendo a Dio questo jihad quotidiano, e all’interno della propri abitazione cercherà di mantenere la piena aderenza al tessuto normativo della sottomissione piena e senza domande facendo rispettare le norme ed i costumi tipici della sua origine.
L’ortodossia islamica richiama questi elementi, racchiudendo all’interno della sfera di competenza del diritto, non solo l’osservanza piena e rigida religiosa, ma anche la disciplina delle norme che regolano ogni sfera della quotidianità, dal diritto di famiglia a quello commerciale, a quello penale. La comunità islamica, da sempre aperta e votata all’attività commerciale con altre culture è di per se ermetica ed impermeabile all’incontro con altri sistemi di diritto.

Il motivo è tra le righe della realtà sociale appena descritta.

Un mutamento delle condizioni di moralità, lo slegare quindi la fede dalla legge, porterebbe ad un inevitabile squilibrio dell’attuale ordine. La fede tiene unite le sponde del diritto, e se mai dovessimo pensare ad un islam laico, cioè privo dei dettami giuridici, un intero sistema di ordinamenti religiosi che gestiscono Paesi Islamici, sarebbe in rotta.
Il controllo della popolazione, dei numeri commerciali, dell’aderenza a dettami non discutibili rivisti da un ristretto nucleo di persone indicate dai notabili secondo convenienze e equilibri tra famiglie e tribu, assicura la tenuta politica a gestioni familiari egemoni in vaste aeree del medioriente, che si auto tutelano assumendo il titolo di guardiani della fede, gestori dei luoghi sacri, padri della fede, padri della rivoluzione ecc ecc…
Un sistema che offre ovviamente anche un interessante gioco anche ai Paesi occidentali che individuando gli elementi di influenza possono avviare e gestire accordi economici a lunga durata bypassando allegramente una serie di attività diplomatiche e chiudendo uno o entrambi gli occhi sulle modalità di gestione e repressione del malcontento o della contestazione in questi Paesi, che non potendo adottare sistemi di garanzia processuale occidentale, si tutelano e tutelano la continuità del mandato (divino ovviamente) attraverso la scelta di imporre la massima sanzione possibile, ovvero la morte se la contestazione è interna (a volte anche all’interno della stessa famiglia) o la guerra se la contestazione ed il pericolo arrivano da oltre confine.

Per dirla come il famoso fiorentino e per chiudere il discorso, la ragione di Stato la fa da padrona. Il mezzo per raggiungere un obiettivo – in questo caso il pieno e totale controllo del territorio attraverso un fitta rete di delegati-  in questo senso è secondario e sicuramente non discutibile, e comunque, come nel caso degli articoli di stampa, meglio buttarla in caciara che spiegare la realtà che si nasconde (ma mica tanto) dietro scelte e numeri.

Chiudo parafrasando il titolo di una tesi presentata da pochi giorni durante una seduta di laurea su indirizzi di gestioni politiche e sociali di area mediterranea, che trattava di passaggi di precarietà, da quella affettiva a quella lavorativa con incudine sulla famiglia. Mi ha colpito.

Penso alla precarietà della fede islamica. Nessuna immagine concessa. Nessuna possibilità di dialogo. Nessuna domanda o dubbio possibile. Ci credi oppure non sei parte. E’ dura per tutta la vita combattere con questo spettro dell’allontanamento dalla tua famiglia. Ci si lega a questi dettami con la disperazione (e la speranza almeno nell’aldila) di chi non ne sa un granchè se non ciò che a memoria ha imparato a recitare, e questo è tutto ciò che sa.

E su queste porzioni di mancata cultura familiare e sociale che le organizzazioni dedite al male operano ed entrano in azione proponendo un proprio punto di vista, ben costruito e congegnato, meticolosamente proposto con adeguato sostegno pseudo culturale.
Un finto Islam di rinterzo che soppianta ogni possibilità di modernizzazione del discorso, tacciato di bestemmia e di non aderenza. Ovviamente. Un nuovo Islam moderno con la possibilità di discutere tra scuole e pensieri, sarebbe veramente un pericoloso nemico per il terrorismo religioso e le organizzazioni che operano in medioriente e nord africa. Ma non stiamo svelando nulla di segreto.

A volte, la maggior parte delle volte,  la volontà a far le cose, purtroppo cozza con la convenienza..a far le cose.

*Analista dilettante, ossia per diletto (F.C.)